Il documentario “Fangio, l’uomo che domava le macchine”, disponibile su Netflix, racconta la storia di uno dei più grandi piloti di tutti i tempi.
L’uomo che domava le macchine. Ha scelto questo azzeccato sottotitolo Francisco Macri per il suo documentario su Juan Manuel Fangio, leggenda di una Formula 1 in bianco e nero sospesa tra velocità e arte. Cinque volte campione del mondo, Fangio è il pilota con la più alta percentuale di vittorie nella storia della Formula 1. Ha vinto 24 gran premi su 51, distribuiti in otto stagioni. Oggi, si arriva a correrli in due campionati e mezzo. È solo uno degli esempi della distanza di quell’epoca. E lo sforzo di Macri nel provare a colmarlo è evidente.
Nel documentario, disponibile su Netflix, le immagini di repertorio delle sue interviste e i racconti di suo nipote si alternano con testimonianze di protagonisti più familiari agli spettatori di “Drive to Survive”, la serie sulla Formula 1 di oggi. Intervengono Fernando Alonso, Alain Prost, Jackie Stewart, Mika Häkkinen, Toto Wolff, Nico Rosberg. Notevoli i ricordi di Horacio Pagani, il creatore delle Zonda che a 12 anni ha conosciuto Fangio, e Hans Hermann, pilota tedesco per qualche anno suo compagno di squadra.
Il documentario mostra anche gli amici che l’hanno conosciuto a Galliate, in provincia di Novara. È il paese di Achille Varzi, rivale di Nuvolari e mentore di Fangio che ha vissuto anche a casa sua, morto nel 1948 sul circuito di Berna. Sul sito del motoclub a lui dedicato, si ricorda una sua frase, così riportata dall’amico Corrado Filippini: “Un uomo nella vita deve o dovrebbe considerarsi fortunato, se è mosso, nelle sue azioni, da un’aspirazione viva ed intensa, tale da conferire alla sua esistenza un ben definito significato: se riesce a tradurre in realtà questa sua aspirazione”. Vale anche per Fangio, per molti il miglior pilota di tutti i tempi. Ma chi era Juan Manuel Fangio?
E’ nato il giorno di San Giovanni del 1911 a Balcarce, a 200 chilometri da Buenos Aires. Come tanti argentini già allora, comincia a giocare a calcio. Chi l’ha visto, lo ricorda come una mezzala con un buon tiro di sinistro. Lo chiamano El Chueco, lo storto, pare per via delle gambe da calciatore. A 11 anni sale su un’auto. È amore a prima vista. Due anni dopo è assistente meccanico per Miguel Viggiano. Poi, dopo il servizio militare, apre un’officina con il fratello.
Inizia a correre nel 1936. Sono corse massacranti, su strade polverose, su macchine pesantissime che sfioravano le 2 tonnellate. Fangio è un maestro nel farsi obbedire dai cavalli del motore. Lo dimostra nel 1940, quando vince la Buenos Aires-Lima-Buenos Aires, diecimila chilometri da percorrere in due settimane. A bordo, bisognava portarsi dietro le taniche di benzina, i pezzi di ricambio in caso di rotture e gli attrezzi per montarli.
Due volte campione d’Argentina (1940 e 1941), nel 1948 ha il primo incidente della carriera al Gran Premio de la America del Sur, un giro del Sudamerica: Fangio si salva, ma muore l’amico e copilota Daniel Urrutia. Nel 1949, per volere del presidente dell’Automovil Club Argentino (ACA), l’”Equipo Argentino” viene a correre in Europa. Ne fanno parte Fangio, Campos, Gonzales che vincerà il primo GP nella storia della Ferrari in Formula 1, Marimon, Mières e Pian. Tutti ospitati a Galliate nella villa di Varzi.
Fangio, l’uomo che domava le macchine, è il pilota di punta dell’Alfa Romeo nel primo Mondiale di Formula 1 nel 1950. “Se l’auto è buona” spiegava, “il pilota è solo un altro elemento del quadro. Ma quando non è buona, allora vengono fuori i bravi piloti. Come nella vita, le corse favoriscono chi ha carattere”. La macchina, diceva, conta per almeno il 50%, il resto lo fanno il pilota e la fortuna. Lui, il Chueco, combina talento, fortuna, attenzione e conoscenza dei motori. Sa fin dove li può spingere, gli anni da meccanico a questo servono, e non supera quel limite.
“Le macchine mi sono sempre piaciute” ha raccontato al quotidiano argentino La Nacion nel 1989, “per me sono come delle creature e reagiscono diversamente a seconda di come le tratti. Ho sempre amato andare forte, ma prima di ogni gara chiedevo sempre agli ingegneri o ai meccanici qual era la velocità massima che potevo raggiungere. Ho sempre pensato a come andare al limite ma senza rovinare la macchina”.
Così Fangio vince il Mondiale del 1951. Poi, dopo il biennio targato Ascari, è praticamente imbattibile tra il 1954 e il 1957. Memorabile la scena chiave al Gran Premio di Monza del 1956: la sua Ferrari ha un guasto, il britannico Peter Collins gli cede la sua. Condividono un secondo posto che vale a Fangio il terzo Mondiale di fila.
Dopo essere stato vittima di un bizzarro rapimento dimostrativo a Cuba nel 1958, Fangio decide di ritirarsi prima della fine della stagione. E alimenta il mito fuori dal tempo. “Lui è di un altro livello. Tra me e Fangio non può esistere nessun paragone” disse Michael Schumacher, il primo a vincere più titoli mondiali del Chueco. Il documentario Netflix restituisce bene lo spirito di un campione tutto velocità e buon senso, che avrebbe da insegnare ancora oggi. “Non smettere di credere che diventerai il migliore” diceva, “ma non pensare mai di essere il migliore”.
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